È l’unico fattore che nessuno sembra considerare quando si parla della crescente difficoltà delle imprese nel trovare operai e tecnici specializzati, ingegneri, informatici. Qualcuno – come sempre – dà la colpa al reddito di cittadinanza, molti si concentrano sull’evidenza dei salari troppo bassi, altri sottolineano la distanza tra i percorsi formativi e le necessità del mercato. L’elefante nella stanza è la demografia: non si trovano giovani lavoratori (anche) perché di giovani in Italia ce ne sono troppo pochi. Il fenomeno del cosiddetto “degiovanimento“, che gli esperti paventano da anni, è esploso e ora le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. “Abbiamo la più bassa percentuale di under 35 in Europa”, riassume il demografo Alessandro Rosina. “Siamo poveri di quella che è la risorsa naturale più importante per ogni Paese che voglia crescere. Ce ne siamo accorti solo ora che c’è un Piano di ripresa con grandi risorse a disposizione, ma che per essere realizzato richiederebbe le competenze e il contributo qualificato dei giovani”. Il tempo per invertire la rotta è quasi terminato: “Ci giochiamo tutto nei prossimi due anni. Se continuiamo a mettere delle toppe, invece che intervenire a monte, potremo solo gestire il declino perché non sia troppo drammatico. Il Paese rischia di trovarsi ai margini dei grandi processi di crescita delle aree più competitive, in un circolo vizioso di basso sviluppo”.

I dati Istat dicono che solo tra 2018 e 2021 la popolazione tra i 15 e i 34 anni è calata di oltre 260mila unità, scendendo a quota 12 milioni. Le forze di lavoro in quella fascia di età, che comprendono gli occupati e le persone che cercano un posto ma non gli inattivi, si sono ristrette ancora di più: -278mila. Vent’anni fa, nel 2002, erano 9,4 milioni, nel 2012 erano scese a 7 milioni, all’inizio del 2022 si fermavano a 6 milioni. La fascia dei 30-34enni, giovani adulti che si avviano verso l’apice della vita attiva, si sta assottigliando a ritmi rapidissimi: in un decennio la somma di occupati e disoccupati di quell’età è diminuita da 3 a 2,4 milioni. “Oggi sono un terzo in meno rispetto ai 50-54enni”, riprende Rosina, “quindi nei prossimi 30 anni assisteremo a una riduzione di un terzo della popolazione in età attiva“. Anche in questo caso si tratta del dato peggiore in Europa: la Francia, per fare un confronto, va incontro a un calo del 10%, in Germania si prevede un -15%. Nel frattempo la maggioranza si spacca sullo Ius scholae, la legge che porterebbe a riconoscere la cittadinanza a un milione di ragazzi under 18 nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni.

Ad aggravare il quadro c’è il fatto che, mentre diventano sempre di meno, i giovani scontano le solite fragilità italiane sul fronte della formazione (l’Italia è prima in Ue per dispersione scolastica e per quota di ragazzi e giovani adulti che non studiano né lavorano, penultima per percentuale di under 35 laureati), dei servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (secondo l’Inapp ancora oggi solo il 4% di chi trova un posto lo fa grazie ai Centri per l’impiego), delle politiche abitative e di quelle per la conciliazione. E subiscono le distorsioni di un mercato che invece di valorizzarli offre salari da fame o comunque insufficienti – anche nel settore pubblico – per consentire l’uscita dalla famiglia di origine e la costruzione della propria. “Il degiovanimento è la combinazione tra il calo quantitativo e questo indebolimento qualitativo. Depotenzia l’energia principale che un Paese può mettere in campo per alimentare ogni processo di crescita. Questa sfida non è stata capita: siamo in un momento di snodo cruciale“.

Nell’ultimo decennio, tra grande recessione e impatto della pandemia, la natalità è crollata e l’immigrazione si è ridotta accelerando il declino demografico. Ora siamo a un bivio: di qui al 2024, spiega l’autore di Non è un paese per giovani (Marsilio) e Crisi demografica (Vita e pensiero), si vedrà se il Paese è in grado di innescare “un circolo virtuoso in cui la ricchezza prodotta dai giovani, dall’aumento dell’occupazione femminile e da un’immigrazione accompagnata dalla necessaria integrazione può essere reinvestita nel welfare e alimentare un miglioramento del benessere della società oppure finirà in un circolo vizioso, con sempre meno persone che creano ricchezza, meno risorse per il welfare che dovranno essere utilizzare sempre di più per gli anziani a scapito di formazione, ricerca e politiche attive, un debito pubblico che diventa insostenibile, nuove generazioni sempre più tentate dall’andare all’estero, natalità in ulteriore calo. A quel punto nemmeno un forte aumento dell’immigrazione, che comunque va programmato in anticipo con una visione di medio-lungo termine, sarebbe sufficiente per compensare il crollo della popolazione in età attiva”. Tanto più che i migranti, soprattutto quelli con alte qualifiche, si spostano nei Paesi attrattivi. Non certo in quelli declinanti, a bassa occupazione, senza sostegni per le famiglie.

Attuare il Recovery plan, che tra le tre priorità trasversali indica le “pari opportunità generazionali (accanto a quelle di genere), secondo Rosina non è sufficiente per imboccare il sentiero virtuoso. “Lì ci sono politiche per l’occupazione giovanile e femminile, ma non si è capito che vanno inserite in un‘ottica di sistema: per rafforzare i percorsi lavorativi serve una formazione adeguata, servono politiche abitative, sostegno alla natalità, servizi che consentano di conciliare vita e lavoro”, spiega Rosina. “E poi non basta trovare “un posto”: devono essere posti che valorizzano le competenze e abilitano scelte di vita”. Tradotto: il lavoro deve consentire a chi lo vuole di potere metter su famiglia. “La questione del salario va messa al centro. Vanno sperimentate politiche che consentano di arrivare a una situazione in cui chi entra nel mercato del lavoro mano a mano si stabilizza e può continuare su una continuità di reddito”. Non come gli attuali incentivi alle assunzioni che finiscono per premiare chi crea posti precari. “In Italia manca l’abitudine a valutare l’impatto delle misure. La vera sfida del Pnrr è questa: non bastano risorse e progetti, bisogna verificare che abbiano un impatto e siano davvero trasformative, cioè mettano le persone in condizione di fare scelte che altrimenti non avrebbero fatto”.

Per ora i segnali sono pessimi: vincitori di concorsi pubblici che rifiutano il posto perché a quello stipendio trasferirsi al Nord non conviene, lavoratori (giovani e meno giovani) che giustamente dicono no ad offerte di lavoro da pochi euro all’ora. “Potenzialmente abbiamo a disposizione grandissime risorse, ma se i giovani non vedranno a breve concrete ricadute positive non sarà più possibile recuperare la loro fiducia. Il momento per riqualificare e inserire i giovani Neet e per dare una prospettiva ai ragazzi già formati, evitando che vadano a cercare opportunità altrove, è questo, quello in cui il sistema Paese si riprende dalla pandemia e le aziende cercano personale. Sarebbe servita una campagna del governo per spiegare alle nuove generazioni che cosa aspettarsi dal Piano e in che tempi, per dire che il Paese vuol investire su di loro. Questo messaggio non è arrivato”. Siamo ancora in tempo? “Non aspettiamo che diventi qualcosa di opportunistico in vista delle prossime elezioni. Va fatto adesso”.

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